FIGLIA DEL TEMPORALE

di Valentina D’Urbano, edito da Mondadori, Milano, 2024

 


LA STORIA

La vicenda si svolge negli anni settanta del secolo scorso in Albania, controllata dal regime comunista. Hira ha tredici anni, vive a Tirana (in foto) con la mamma; il padre, esponente del partito e professore universitario, è morto anni prima, il fratello è emigrato in Bulgaria. La vita di Hira, tranquilla e tutto sommato confortevole anche se non agiata, cambia in maniera drammatica un giorno quando, mentre lei si trova a scuola, una fuga di gas nel condominio in cui abita riduce l’edificio in macerie e la rende orfana anche della madre. Dopo un periodo passato in orfanotrofio viene affidata dai servizi sociali alla famiglia dello zio Ben, fratello del padre, che vive in un lontano villaggio nel nord del paese, tra le montagne. Qui la vita per Hira è completamente diversa da quella che conduceva nella città natale. Nella rustica casa degli zii fatta di pietra grezza, priva di comodità e dalle strette finestre concepite per tenere fuori il gelido clima dell’inverno e il vento tagliente, Hira apprende nuove abitudini e esegue docilmente ciò che le viene insegnato. Impara ad accudire la casa, a fare il pane, a lavare i panni con la cenere e a risciacquarli nel torrente. Gli zii sono ruvidi, ma l’accolgono e la considerano come una nuova figlia oltre a quelli che hanno già, Danja e Astrit. Hira diventa amica della cugina Danja ma si lega soprattutto al fratello di lei, Astrit, un ragazzo strano e selvatico, una creatura dei boschi dove ama andare in esplorazione per giorni e di cui conosce ogni palmo. Astrit ha perso la voce da bambino, ma lui e Hira riescono a comunicare in un modo del tutto personale, esprimendo i loro pensieri e le loro emozioni con sguardi, con la mimica del volto, con gesti a volte bruschi e ruvidi, a volte teneri e delicati. Il rapporto tra i due ragazzi si consolida negli anni, Hira, crescendo, diventa la compagna di Astrit nelle sue peregrinazioni nella foresta e su per la montagna. E’ anche per via di questo profondo legame con il cugino che Hira, quando a venti anni le viene imposto dagli zii un marito secondo le usanze patriarcali del luogo, si rifiuta di sposarsi e sceglie di seguire la legge della montagna, il Kanun. Per non disonorare la famiglia diventa una vergine giurata, una burrnesh, abbandona la sua identità femminile per assumere quella maschile. Prende il nome di Mael, che vuol dire lupo, si taglia i capelli, indossa abiti da uomo, assume atteggiamenti e abitudini maschili. Impara a fumare e a bere raki, a usare il fucile e a guidare il camion, non si sottrae ai lavori più faticosi.
Anche se il nuovo Mael vuole seppellire dentro di sé la sua antica identità, questa riuscirà ad emergere dall’abisso in cui è stata rinchiusa e la scelta di Hira di essere libera concluderà la storia con un finale a sorpresa.


DAL TESTO

Il villaggio era buio. Non quanto il bosco, ma comunque ci aleggiava intorno un’oscurità inospitale, o forse mi senb..rò tale solo perché ero distrutta dalla stanchezza. Un manipolo di case con l’intonaco grezzo e una strada bianca che ci passava in mezzo, campi, palizzate e capanni di lamiera per tenere riparate le bestie, in lontananza un edificio che sembrava più recente, pensai fosse la sede centrale della cooperativa agricola. […] Il camion si fermò sullo spiazzo di una tozza costruzione in pietra a più piani, dal tetto spiovente e dalle finestre strette, con una scala esterna che portava direttamente al primo piano dell’edificio, dove si trovava l’ingresso. Una kulla. Ne avevo viste solo in certe fotografie dei libri di scuola. L’uomo uscì dall’abitacolo gridando il nome di mio zio. Si accese una luce all’interno della casa, la porta al primo piano si aprì e qualche secondo dopo eccoli lì, in cima ai gradini di legno, quelli che dovevano essere i miei parenti.

[…]

Senza aspettare alcun invito, Astrit venne a sedersi accanto a me, mi strofinò la faccia sull’orecchio e sui capelli, come un gatto ruffiano. Lo faceva spesso quando eravamo soli. Non mi dava fastidio e allora lo lasciavo fare, s’era preso quella confidenza e quel modo di salutarmi, e sentivo di avere bisogno di quell’affetto lì. Non potendo parlare, lui toccava e io mi lasciavo toccare.
Aveva le guance screpolate dal gelo e dal rasoio di suo padre con cui aveva cominciato a radersi, e si portava addosso un odore freddo e pungente di resina e nebbia che già conoscevo.

[…]

Ero io la persona a cui aveva detto le prime parole dopo dieci anni di silenzio. Io che l’avevo seguito nel bosco, sfidando la legge. Lo avevo scelto come punto di riferimento, era diventato il mio Nord, la stella polare con cui mi orientavo. M’ero dissolto in altra forma e avevo ripudiato mio fratello per restargli accanto. Avevamo condiviso pagliericci scomodi sulla montagna, sigarette e bottiglie, conoscevo tutti i suoi segreti, gli anfratti più oscuri del suo essere, sapevo tracciare a memoria tutti gli spigoli aguzzi del suo viso, ci eravamo salvati a vicenda innumerevoli volte. M’aveva dato il nome di un lupo, avevo salvato la sua donna. Indossavo i suoi abiti, le sue camicie, il suo giaccone. Avevamo lo stesso passo, ci assomigliavamo nei modi, nell’odore, nei tratti spigolosi. Era molto più di me di quanto io stesso lo fossi.


ALCUNE RIFLESSIONI

Figlia del temporale è una storia totalizzante che trascina il lettore in un flusso di emozioni una pagina dietro l’altra fino alla conclusione. In una comunità chiusa, rigida, di stampo patriarcale, un’emanazione quasi delle scabre montagne che fanno da background, si dipana una vicenda fatta di tenerezza, di rabbia, di coraggio, di tenacia che ha come protagonisti Hira e Astrit. Il legame profondo e simbiotico che si instaura tra di loro ha a che vedere con la natura granitica e selvaggia delle montagne e delle foreste che sovrastano il loro villaggio. Astrit stesso è uno spirito del bosco, per metà umano e per metà elfo, i suoi abiti sono impregnati dell’odore selvatico dei boschi di cui conosce ogni anfratto, ogni sentiero. Il suo viso dai tratti aguzzi e appuntiti assomiglia a quello di una volpe, di un lupo, e lui si muove come un animale del bosco, spostandosi silenzioso, leggero, veloce. Astrit ha perso la parola da bambino per uno spavento e la ritrova un giorno con Hira quando, vedendola in pericolo, spinto dalla disperazione riesce a urlare il suo nome. Ritrovando la voce Astrit si avvicina ad Hira come essere umano, mentre seguendo il cugino nelle sue peregrinazioni su per la montagna Hira acquisisce un che di selvatico, percepisce il respiro delle rocce, si sente creatura dei boschi. I due personaggi vivono in simbiosi, si fondono ricordando in qualche modo Heathcliff e Catherine di Cime Tempestose, il capolavoro di Emily Bronte. Non si perdono mai, neanche quando Hira, rifiutando il matrimonio imposto, diventa Mael assumendo un’identità maschile e costringendosi alla castità. La scelta di Hira di diventare uomo avviene in ottemperanza alla legge del Kanun, un codice di diritto consuetudinario nato ancora prima dell’epoca feudale e osservato nei paesi balcanici nel corso dei secoli, tuttora presente in alcune zone montuose dell’Albania. Il romanzo è interessante per le verità storiche e socio-culturali che contiene, ma ciò che cattura è soprattutto la trama così pregna di emozioni, narrata in una prosa a volte ruvida e spigolosa, a volte tenera e struggente soprattutto quando indaga l’animo umano.


L’AUTRICE

Valentina D’Urbano (1985) è scrittrice e illustratrice per l’infanzia. Ha pubblicato con Longanesi il suo primo romanzo, Il rumore dei tuoi passi, nel 2012 e a seguire Acquanera, Quella vita che ci manca, Alfredo, Non spettare la notte, Isola di neve. Nel 2021 pubblica per Mondadori Tre gocce d’acqua e nel 2024 Figlia del temporale.

I suoi romanzi sono stati tradotti in diverse lingue e hanno avuto riconoscimenti e premi letterari.